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Francesco Giannattasio: «Il vero nemico del design italiano è la mancanza di risorse»

di Valentina Tafuri
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Nel lavoro dell’architetto salernitano l’infisso diventa un esercizio di sottrazione e dialogo con la luce. Il suo approccio all’interior design unisce cura artigianale, customizzazione estrema e visione architettonica integrata, per dare forma a spazi coerenti, su misura e tecnologicamente evoluti.

 

Ha progettato di tutto nella sua carriera: dagli interni agli stand fieristici, ai divani, alle decorazioni di mattonelle, agli oggetti, persino delle urne cinerarie ma è la luce l’ elemento architettonico per lui imprescindibile, tanto da aver fatto suo il motto dell’architetto spagnolo Alberto Campo Baeza: «Sine luce nulla architectura est». Francesco Giannattasio, architetto salernitano fondatore dello studio FGA – Francesco Giannattasio Architects, ha esperienze internazionali ed eterogenee: ha esposto al Salone Satellite della Milano Design Week, è stato tra i premiati dello Young & Design Award del 2006 e più volte i suoi progetti sono stati pubblicati su riviste di arredamento e specializzate. Appassionato di illuminazione, ha disegnato diverse lampade e lampadari prodotti da importanti brand. Sua la lampada “Orange” che ha illuminato un’area del padiglione Giapponese all’Expo 2015 di Milano, suo uno dei lampadari che hanno illuminato la casa del Grande Fratello. Le ultime, in ordine di tempo, sono lampade “Grace” che rappresentano una sperimentazione dell’uso del marmo, anche di colore scuro, nel diffondere la luce, scelte dalla catena del lusso Ritz per completare gli arredi interni dei suoi hotel. 

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Lampada Grace

Cos’è per lei l’architettura?

Sicuramente una grande passione oltre che la mia professione. E’ un modo per interpretare il tempo in cui viviamo. Guardi, accennavo allo stile neoclassico manieristico e non può esserci che maniera nel cosiddetto stile classico perché, a mio avviso, non esiste. Non esiste nel senso che esiste solo l’architettura contemporanea. Sempre. Michelangelo, Leonardo, erano ultra-moderni, ultra-contemporanei, interpreti dei propri tempi. Così dovrebbe essere ogni architetto. Non ha senso, oggi, fare una casa in stile classico. Io sono un architetto figlio del tempo in cui vivo. Per questo mi definisco “archi-tecno”: sia tecnico che tecnologico, unisco know how specialistico e conoscenza delle soluzioni digitali di domotica che sempre più spesso inserisco nella progettazione.

Da dove trae ispirazione?

Ci sono due percorsi nella vita di un architetto. Quello creativo di quando si è ancora giovani di grandi speranze, idealisti ed un po’ romantici. Quando cioè si guarda al mondo e agli oggetti per trovare una soluzione di design alle esigenze quotidiane. Questa è una fase in cui disegni molto e che comporta anche una buona dose di frustrazione e delusioni. Diciamo che ho superato questa fase ed ora sono in quella della maturità, quando cambia l’approccio. Il disegno, la progettazione e quindi anche l’ispirazione, sono più funzionali ad una serie di parametri, partono da uno studio del background, sia esso l’azienda per la quale devi progettare un oggetto o un appartamento da ristrutturare, si passa a vagliare le necessità, le richieste e dunque si inizia a disegnare, con un occhio sempre attento anche al budget e soprattutto alla fattibilità. Quando ero ancora molto giovane ho disegnato un divano da produrre con la tecnica dello stampaggio rotazionale. L’azienda apprezzò molto il progetto e lo acquistò ma non lo mise mai in produzione perché questo tipo di prodotti sono particolarmente voluminosi ed avrebbero richiesto spazi enormi per lo stoccaggio. Un vero peccato ma quell’esperienza mi è stata molto utile successivamente.

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Lampada Anemone nera

Di cosa si occupa il suo studio nello specifico?

Siamo molto focalizzati sull’interior design, che siamo in grado di seguire con progetti a 360° che possono arrivare anche alla customizzazione dell’intero spazio, sino alla progettazione dei corpi illuminanti e dei complementi d’arredo, come abbiamo fatto, tanto per fare un esempio, nell’allestimento di una storica salumeria salernitana anni ‘80 che abbiamo trasformato in una moderna osteria-salumeria, quasi una boutique. Lavoriamo in collaborazione con artigiani e produttori per realizzare pezzi originali e personalizzati. La qualità, sia del design che dei materiali, sono fondamentali sia per la bellezza e la funzionalità degli oggetti che per consentire al design italiano di sopravvivere. Il vero nemico del design italiano infatti non sono la mancanza di creatività e la capacità di realizzazione tecnica, su cui siamo davvero i primi nel mondo, ma la mancanza di risorse degli imprenditori italiani. Questo ci espone al rischio di essere sopraffatti dal design orientale, come è già successo nell’automotive. Il settore del mobile, per fortuna, è però ancora molto radicato sul territorio nazionale.

È appassionato di illuminotecnica. Come integra gli infissi nei suoi progetti?

L’infisso è una parte fondamentale, ovviamente non se può fare a meno ma l’architetto non vorrebbe che si vedesse, vorrebbe vedere solo il vetro, la luce, appunto. Siccome non è possibile, solitamente prediligo infissi dai profili sottili e magari con aperture alternative, ad esempio che scorrono o si impacchettano.

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Photo: Gerry Fezza photography – Casa Vigo

Nella sua città alcune opere sono state progettate da architetti di fama internazionale come David Chipperfield e Zaha Hadid. Per lei Salerno può essere un’icona urbana?

Sono molto legato alla mia città d’origine e molto affezionato alla Stazione Marittima di Zaha Hadid, che raccoglie in sé tantissimi aspetti sia come progetto architettonico e mi consenta di fare un azzardo, sia come oggetto di design. Le sue linee richiamano al legame con il mare, alla sua fluidità, le mattonelle di cui è ricoperto il tetto rimandano alla tradizione ceramica vietrese e ai colori del cielo e del mare. In questo senso, posso considerarla la mia icona urbana. E’ molto attuale e ben calata nel contesto anche se le sue dimensioni sembrano ancor più ridotte, per questo parlavo di oggetto di design, perché è sovrastata dall’imponenza del Crescent, un edificio in stile neoclassico, di cui si è molto dibattuto in città.

Valentina Tafuri

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