Alla fiera TTG Travel Experience di Rimini, il panel “L’hotel è ancora una casa lontano da casa?” mette a confronto tre studi di architettura sul futuro dell’hospitality. Tra nuove sensibilità estetiche, vincoli urbani e desiderio di identità territoriale.
In un’Europa attraversata da tensioni geopolitiche, dazi, instabilità delle filiere e nuove sfide economiche, l’industria dell’ospitalità sta rispondendo con un cambio di paradigma silenzioso ma radicale. Il lusso non è più ostentazione, ma eleganza fatta di materia, emozione e memoria. In questo scenario si inserisce il panel “L’hotel è ancora una casa lontano da casa? L’Architettura nel tempo del Risveglio tra estetica, funzione ed etica”, che si è svolto all’evento TTG di Rimini, dove tre protagonisti dell’architettura italiana – Armando Bruno (socio fondatore e CEO dello Studio Marco Piva), Vittorio Grassi (architetto fondatore e socio unico del suo studio) e Ludovica Serafini (dello studio Palomba Serafini Associati) – hanno esplorato i nuovi codici progettuali del settore alberghiero, moderati da Remo Vangelista (Direttore TTG Italia e InOut Review).
I relatori con il moderatore Remo Vangelista
Un mercato in trasformazione: tra quiet luxury e spazi ibridi
Secondo l’ultimo rapporto di Lodging Econometrics, sono 1690 i progetti alberghieri attualmente in costruzione in Europa, per un totale di quasi 249mila nuove camere. Di questi, il 44% è già in fase esecutiva, mentre altri 376 progetti (57mila camere) partiranno entro il 2026. Un trend in crescita, testimoniato anche dai 570 progetti in fase di pianificazione (+11% rispetto al 2024), che conferma una direzione chiara: predominio del segmento lusso, ma con una marcata tendenza alla sobrietà.
È il tempo del cosiddetto “quiet luxury”, una forma di raffinatezza meno appariscente ma più consapevole, che si esprime attraverso materiali autentici, palette morbide, attenzione ai dettagli. Gli hotel diventano quindi spazi ibridi, dove lavoro, riposo e socialità coesistono, e in cui la progettazione architettonica è chiamata a rispecchiare questi nuovi bisogni. La standardizzazione cede il passo all’identità, favorendo l’emergere di micro-brand e boutique hotel capaci di costruire un dialogo diretto con il contesto locale.
Architetti a confronto tra vincoli e libertà creativa
Il dibattito alla TTG ha messo in luce la complessità del progettare per l’hospitality oggi. Ludovica Serafini ha sottolineato come i “limiti” per l’architetto siano spesso imposti dalla committenza e dalla scala dell’intervento, ma anche quanto sia fondamentale la curiosità verso i materiali e l’evitare soluzioni già viste.
Armando Bruno ha ricordato l’evoluzione del ruolo dell’interior design alberghiero: «Venticinque anni fa progettare un hotel significava compilare un formulario imposto dal brand. Oggi si lavora con maggiore libertà, pur restando legati alla proprietà e alle logiche di branding». Anche se, come ha precisato, le grandi catene stanno diversificando con brand interni sempre più personalizzati.
Photo: Freepik / DC studio
Per Vittorio Grassi, «l’albergo è tra gli spazi più difficili da progettare perché deve rassicurare ed emozionare allo stesso tempo». In contesti urbani vincolati, soprattutto nei centri storici, il progetto diventa una sfida di reinterpretazione, dove ogni dettaglio può fare la differenza tra anonimato e identità.
Palazzo Daniele: l’assenza come spazio creativo
A proposito di dettagli, è rappresentativo l’esempio di restauro architettonico di un palazzo aristocratico del 1861 portato da Serafini: Palazzo Daniele, boutique hotel di 11 suite realizzato a Gagliano del Capo (Lecce) nel 2018. «Abbiamo “toccato” il meno possibile, rimosso tutto il superfluo ed esaltato la struttura originaria», ha raccontato. Il suo studio ha evidenziato caratteristiche storiche precedentemente nascoste, come affreschi e pavimenti in mosaico, che hanno creato aree accoglienti per mettere in risalto la collezione d’arte contemporanea presente in tutta la proprietà.
Oggi l’edificio si apre in una sequenza di cortili in dialogo tra loro attraverso una serie di passaggi e scalinate, mantenendo sempre il contatto visivo, dove le stanze si guardano l’una di fronte all’altra. Si tratta di un intervento che dimostra come l’hotel possa essere motore di rigenerazione territoriale e laboratorio di nuova socialità. «L’albergo è diventato come un’industria che ha rigenerato il paesino», ha spiegato Serafini.
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Il rapporto con il territorio: oltre lo storytelling
Nel dibattito è emersa infatti una convergenza di pensiero sulla necessità di radicare l’hotel nel territorio, ma con approcci diversi. Serafini ha espresso una critica netta alla standardizzazione, ribadendo che «l’architettura deve essere a servizio dell’uomo e del luogo». Per Bruno, pur riconoscendo che la materia appartiene al territorio, i grandi capolavori architettonici non sempre ne sono l’espressione. Grassi, invece, ha evidenziato come lo spirito del luogo sia un elemento imprescindibile, anche per i grandi brand internazionali, che oggi cercano di declinare le loro identità in relazione al contesto locale: un Hilton a Milano non può essere uguale a uno a Napoli.
Il dibattito ha quindi evidenziato come l’architettura dell’ospitalità stia attraversando una fase di ridefinizione, sospesa tra esigenze funzionali, sostenibilità e personalizzazione. La progettazione di hotel non può più prescindere dal contesto territoriale, dalla scelta consapevole dei materiali e da una nuova attenzione all’esperienza emotiva degli ospiti. L’architettura, oggi più che mai, è chiamata a rispondere con soluzioni versatili, capaci di coniugare estetica e identità locale con la flessibilità richiesta dai nuovi modelli di viaggio.
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